Focus medicina di laboratorio

Non si può curare il sistema sanitario nazionale con la calcolatrice, figuriamoci i pazienti. Nell’era della spending review l’appropriatezza, intesa come taglio lineare di tutte le prestazioni, è stata l’ennesima “tegola” che ha determinato una «decrescita» degli esami di laboratorio che negli ultimi 12 mesi hanno viaggiato in controtendenza rispetto agli altri comparti della salute. Eppure, è emerso nel corso del secondo tavolo di incontro riunito da Il Sole 24 Ore-Sanità “La medicina di laboratorio: un valore per la salute italiana”, gli esami clinici sono fondamentali per il medico. Pesano poco sulle casse del Ssn (non arrivano al 2% della spesa complessiva) rappresentando, però, la base di circa il 70% delle diagnosi.

Ciò non toglie, tuttavia, che il percorso possa essere reso più virtuoso: gli stessi soldi, per esempio, potrebbero essere spesi meglio magari riversandoli sugli esami più innovativi. E anche i laboratori dovrebbero proseguire con più celerità sulla strada dell’integrazione. Ma il vero problema, hanno sottolineato i partecipanti al tavolo di Assodiagnostici-Assobiomedica, Fismelab, Fare, Tribunale per i diritti del malato, Aiic e Snamid, sono le scelte politiche a monte che legano le mani ai medici – e dunque frenano la qualità del servizio ai pazienti – non riuscendo comunque ad arginare le ricadute economiche degli esami non solo inappropriati ma, spesso, anche anacronistici.

«Un nomenclatore che non debba attendere 20 anni per essere aggiornato ma costantemente rivisto da professionisti indicati dalle società scientifiche di competenza, e non da una Commissione calata dall’alto – sottolinea Pierangelo Clerici, presidente Federazione italiana Società scientifiche di medicina di laboratorio (Fismelab) – potrebbe risultare un utile strumento per il controllo, e non necessariamente la riduzione, della spesa senza dover intervenire in maniera improvvida come accadde nel dicembre 2015 con il famigerato decreto-appropriatezza successivamente ritirato».

Secondo Clerici sono tre le fasi del percorso diagnostico-terapeutico: l’appropriatezza prescrittiva, l’appropriatezza analitica e quella diagnostica. Ovviamente, spiega, «ognuna di queste fasi ha come protagonista e decisore del sistema il professionista delle discipline di medicina di laboratorio». Su questo punto, tutti d’accordo al tavolo dei lavori: senza mettere in rete le conoscenze di tutti i professionisti non si può realizzare un sistema efficiente e moderno.

«L’appropriatezza prescrittiva – rileva Clerici – prevede per il medico prescrittore un confronto costante e diretto con il collega di laboratorio al fine di costruire protocolli diagnostici che abbiano riscontri con le migliori opportunità che il laboratorio stesso può offrire in termini di indagini. Sicuramente il medico ospedaliero è più facilitato in questo rispetto al medico di medicina oenerale o al pediatra di libera scelta dove l’imposizione di un nomenclatore delle prestazioni ambulatoriali li costringe a operare in assoluto ossequio alla burocrazia senza avere la possibilità di plasmare un setting diagnostico come la medicina personalizzata o di precisione richiederebbe».

L’appropriatezza analitica è parte fondamentale dello status del professionista di laboratorio. «La ricerca di sempre migliori tecnologie e di possibili nuovi test diagnostici confortati da evidenze scientifiche, e non contemplando più test obsoleti – aggiunge Clerici – non deve essere intesa semplicisticamente come un possibile incremento di costi o una modalità di esibizionismo tecno-professionale “all’ultimo grido” ma anche come un sistema utile a organizzare le risorse in maniera congrua e non disperdere tecnologie ma concentrandole secondo logiche di efficienza, expertise e caratteristiche epidemiologiche al fine di costruire un percorso virtuoso e mirato al paziente».

Insomma, l’appropriatezza non deve avere solo un valore economico ma anche etico. Anche perché non si può pensare di garantire diagnostiche a due/tre/quattro velocità secondo la localizzazione dei laboratori. «L’Italia, seppur dotata di sistemi sanitari regionali – spiega Clerici – deve essere egualitaria nell’offerta di test con una corretta logica di prossimità non esasperata al singolo campanile». L’appropriatezza diagnostica, infine, ossia l’analisi dell’outcome clinico. «Solo a fronte di un costante confronto tra il medico curante e il professionista di Laboratorio – sottolinea – possiamo comprendere se il mantra “fare il test giusto, al paziente giusto, al momento giusto e con il professionista giusto” porti ai risultati attesi dai percorsi diagnostico-terapeutici considerati o eventualmente a loro correzioni. Se il sistema salute, con al centro il paziente, è orientato alla medicina personalizzata o di precisione, non si può assolutamente prescindere dall’appropriatezza in una visione olistica della stessa e quindi dal coinvolgimento indispensabile degli specialisti delle discipline di medicina di laboratorio».

In questo quadro anche l’industria è pronta ad offrire il suo contributo per recuperare efficienza e, dunque, assicurare risparmi. Ma auspica un cambio di paradigma.

«L’appropriatezza nella diagnostica in vitro – dice Massimiliano Boggetti, presidenti di Assodiagnostici- Assobiomedica – viene troppo spesso considerata solo come un taglio lineare dei test eseguiti, processo a cui si opporrebbe un’industria apparentemente interessata solo alle vendite e al profitto. In realtà se il test non viene usato in maniera corretta, ovvero non porta outcome sul paziente, per l’impresa non c’è valore». E un’industria che non porta valore non può di fatto esistere. Per Boggetti, dunque, appropriatezza significa “fare i test giusti”, che vuol dire poter scegliere innovazione tecnologica e test con marcatori di nuova generazione quando servono. Per questo Assodiagnostici propone di coinvolgere le società scientifiche nella definizione di linee guida che individuino gli esami appropriati e più in generale suggeriscano come trattare il paziente per specifica patologia, «invece di ricercare l’appropriatezza con l’introduzione di norme volte alla mera riduzione delle prescrizioni, vincolando di fatto le scelte dei clinici nella gestione del paziente».

«In questo modo – assicura Boggetti – tutti avrebbero a disposizione delle linee d’indirizzo condivise e aggiornate dagli specialisti e dalle istituzioni. Mentre il ministero e le società scientifiche potrebbero farsi carico della formazione ai medici di queste linee guida, attività fondamentale per l’appropriatezza, e di un percorso di verifica della loro corretta applicazione».

Secondo Boggetti gli indicatori dell’appropriatezza dovrebbero essere la salute del cittadino che afferisce a determinati bacini ospedalieri e territoriali rispetto alle risorse spese. «Le tecnologie e l’innovazione – sostiene – potrebbero essere così recepite in modo tempestivo e valutate secondo un percorso strutturato di Health Technology Assessment (Hta)». Insomma, l’inappropriatezza non è solo quella prescrittiva, «ma anche la standardizzazione nell’acquisto di tecnologie senza valorizzare quelle innovazioni che stanno rivoluzionando la medicina moderna e fondando le basi per la futura “medicina personalizzata”. Finché si rinnega il valore dell’innovazione tecnologica, considerandola solo come un costo, si tende a non rinnovare la Sanità con il rischio che solo pochi cittadini possano beneficiare delle tecnologie che oggi l’industria rende disponibile».

Appropriatezza e sostenibilità, dunque, sono due termini che vanno accoppiati con molta attenzione in sanità soprattutto se si attribuisce al primo un significato meramente economico. «Una lettura da “clinico” – evidenzia Roberto Stella, presidente della Società nazionale di aggiornamento per il medico di medicina generale (Snamid) – non può non evidenziare quali siano gli interventi che, certamente appropriati, non sono direttamente collegati ad un risparmio di spesa almeno nel breve termine. Applicazione puntuale delle linee guida, interventi di prevenzione primaria e secondaria, medicina d’iniziativa e diagnosi precoce nei soggetti a rischio, gestione del paziente cronico pluripatologico, sono solo alcuni esempi di appropriata applicazione della cura della persona e di una corretta interpretazione del concetto di salute».

La diagnostica di laboratorio svolge un ruolo fondamentale in tutti questi ambiti che, secondo Stella possono certamente aumentare la spesa sanitaria nell’immediato, ma diventano fonte di risparmio in una proiezione a lungo termine. «Non va trascurato poi – aggiunge il presidente Snamid – che perseguire l’appropriatezza attraverso tagli di spesa lineari, limitazioni della diagnostica, sanzioni ai prescrittori, mal si concilia con il concetto di equità di accesso alle cure e di autonomia di medici e pazienti nel percorso clinico assistenziale».

Allora, come fare appropriatezza? «Probabilmente costruendo un percorso virtuoso – dice Stella – che comprende formazione, miglioramento delle competenze, acquisizione di responsabilità, rispetto dei principi etici, forte relazione medico-paziente, coinvolgimento partecipato di istituzioni, professionisti e cittadini nelle scelte e nelle decisioni».

Nella filiera dell’appropriatezza della medicina di laboratorio, inoltre, appare fondamentale non solo l’apporto dei clinici, ma risultano determinanti anche le figure che gestiscono le procedure d’acquisto. Ne è convinto Claudio Amoroso, del direttivo Fare-Federazione delle associazioni regionali economi e provveditori della sanità, secondo cui «l’appropriatezza rappresenta un sistema clinico organizzativo alla cui efficienza concorrono anche la gestione delle procedure di gara e dei controlli di sostenibilità, nonché l’evoluzione e l’adeguamento normativo». Attraverso questi percorsi è possibile garantire l’equità del servizio, la qualità e la sostenibilità dei processi, nonché la costruzione di un modello di governance appropriato ed efficace. «Impostare un capitolato tecnico e scegliere una procedura di gara in termini non esattamente corretti e coerenti con la normativa – spiega Amoroso – con le linee guida e con le buone pratiche di laboratorio, può rappresentare un elemento di inappropriatezza che si ripercuoterà sicuramente sulla prestazione sanitaria finale. Ecco quindi che al Responsabile unico del procedimento di gara viene richiesto di interpretare, oltre ai compiti specifici della professione, quel nuovo ruolo di project manager attraverso la pianificazione e la gestione dello sviluppo di specifici progetti con il coordinamento di tutte le risorse a disposizione e gli interventi finalizzati ad assicurare l’unitarietà dell’intervento, il raggiungimento degli obiettivi nei tempi e nei costi previsti, la qualità della prestazione e il controllo dei rischi».

Non c’è dubbio che il sistema abbia ancora bisogno di una vigorosa messa a punto. Perché alla fine a determinare la scelta è solo il prezzo finale.

Dal canto suo Tonino Aceti, coordinatore nazionale Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, si domanda chi sia a decidere nel nostro Paese ciò che è appropriato in sanità «La “Commissione nazionale per l’aggiornamento dei Lea e la promozione dell’appropriatezza nel Servizio sanitario nazionale” – analizza Aceti – è il soggetto a ciò preposto, ma purtroppo ad oggi ha scelto di escludere ogni forma di coinvolgimento e partecipazione delle organizzazioni di cittadini e pazienti, che invece sull’inappropriatezza di alcune prestazioni e sul tema di “ciò che serve e cosa no” possono contribuire in modo significativo portando le proprie evidenze ed esperienze».

La componente civica è, dunque, «la grande assente» di questa importante Commissione. «Si tratta di un grave gap che va colmato subito – auspica Aceti – soprattutto per superare le distorsioni del concetto di appropriatezza sperimentate dai cittadini attraverso gli effetti ad esempio del cosiddetto “Decreto Appropriatezza”».

Accade infatti che l’appropriatezza clinica venga piegata al raggiungimento dell’appropriatezza economica-amministrativa, quindi mero esercizio di compatibilità economica. Con l’effetto di perdere di vista anche uno degli aspetti della vera appropriatezza che è la personalizzazione degli interventi di cura».

E un ruolo primario per un sistema appropriato e di qualità spetta agli ingegneri clinici, una figura che sta prendendo piede negli ospedali e nelle aziende sanitarie. «Il contributo degli ingegneri clinici – spiega Liliana De Vivo, dell’Associazione italiana ingegneri clinici (Aiic) in forza al Bambino Gesù di Roma – può risultare fondamentale nel gioco di squadra che ormai deve contraddistinguere ogni processo innovativo virtuoso in sanità». Si parte dalla fase preliminare all’acquisto, «spaziando dalle più semplici valutazioni tecniche ai più complessi processi di Health Technology Assessment, il cui risultato deve garantire l’individuazione della tecnologia più adatta alla specifica esigenza espressa, così da ottimizzare le risorse a disposizione in ottica, appunto, di appropriatezza diagnostica». Si passa quindi alla fase di gestione delle tecnologie, «la cui complessità è oggi, per la medicina di laboratorio, paragonabile a quella dei grandi impianti radiologici e delle moderne sale operatorie integrate, non solo per le caratteristiche proprie delle apparecchiature ma anche per la compresenza di correlati importanti aspetti impiantistici, informatici e di automazione. Ciò, ancora una volta, avendo come obiettivo l’appropriatezza diagnostica.

«In ogni fase della vita delle tecnologie biomediche conclude De Vivo – l’ingegnere clinico si pone quale “mediatore culturale” al fianco del comparto sanitario, partecipando alla cura della salute e garantendo con il proprio supporto un uso sicuro, economico e appropriato delle tecnologie biomediche».

DI ERNESTO DIFFIDENTI
Tratto da Il Sole 24 ore -Sanità

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